“Un altra forma d’amore”, è titolo della mostra antologica sulla coppia Mario Mafai e Antonietta Raphaël, attualmente in corso al Casino dei Principi a Villa Torlonia.
Federica Di Folco ci ha guidato nelle sale che espongono le opere proprio attraverso il fil rouge del loro grande amore, che così profondamente ha interagito nella rispettiva vicenda artistica. La disposizione di dipinti e sculture in alcuni casi crea una forma di dialogo tra i due, con le inevitabili assonanze ma anche con le significative differenze, in altri segue vari focus sull’uno o sull’altra in determinati momenti esistenziali e artistici.
Mario Mafai conosceva già Giulio Bonichi alias Scipione con cui frequentava la Scuola libera del nudo associata all’Accademia di Belle Arti di Roma quando, nel 1924 incontrò “Antoinette” Antonietta Raphaël, originaria della Lituania, ultima di quattordici figli del rabbino Simon e di Katia Horowitz. Lei veniva da Nizza ma ancor prima era stata a Montecarlo, Parigi e Londra, dove si era diplomata in pianoforte (la musica rimarrà per tutta la vita un’altra grande passione) e dove era arrivata con la madre, in fuga dalle persecuzioni contro gli ebrei.
Quando si incontrano lei, già emancipata e cosmopolita, affascina i due giovani artisti con la forza delle sue composizioni in cui, oltre ai drappi esotici e coloratissimi che saranno costante presenza nei suoi dipinti, essi trovano l’eco della pittura degli ebrei emigrati a Parigi, tra cui Marc Chagall.
La prima figlia, Miriam, nacque nel 1926 a Firenze, dove Raphaël si era spostata a seguito di una delle tante rotture che costellano questo amore possente e travagliato.
Nel novembre 1927, i due andarono ad abitare insieme in via Cavour, a due passi dal Colosseo, in un palazzo poi demolito in vista della realizzazione della via dell’Impero. Una casa-studio conosciuta come la “scuola di via Cavour”, una sorta di embrione di quella che verrà chiamata “Scuola romana”, in realtà un gruppo eterogeneo di artisti, con più di un’ascendenza verso la pittura della tradizione. Mafai e Raphaël, ognuno a suo modo, non subivano il fascino della tradizione, sebbene per Raphaël soprattutto, e principalmente nelle sue materiche opere di scultura, su cui tornava ad intervenire negli anni, la forma rimane sempre e comunque il principale oggetto di ricerca.
Nelle varie fasi dell’arte di Mafai, uomo affascinante ma intriso di malinconia, si incontrano a un certo punto dipinti in cui la luce gioca un ruolo nuovo, quasi elegiaco: sono le struggenti visioni delle demolizioni della Roma fascista, ferite luminose, dai tenui colori, nel corpo di una città sparita per sempre.
Nel ‘30, dopo aver avuto la terza figlia, si trasferiscono a Parigi, ma Mafai ha bisogno di Roma e ci tornerà subito, lei solo nel ‘33. Quando sono lontani Antonietta riesce a dedicarsi maggiormente alla pittura, allentandosi quella che a tutti gli effetti sentiva come una competizione. Al tempo delle leggi razziali sono a Genova, poi Mario viene richiamato alle armi nel ‘39: continua a dipingere ma è orientato via via e sempre di più verso l’astrattismo, una scelta che lei non comprenderà mai. Si ricongiungono nel fatidico settembre del ‘43, ma quando, nel 1944, Mario si sposta a Napoli, la loro storia va definitivamente in crisi. Si separeranno però solo nel 1960. Antonietta riprende la scultura e sono ancora forme femminili, imponenti, porose, Mario è ormai definitivamente astratto.
La mostra, raccontata con la solita bravura ma anche con una buona dose di condivisibile commozione da Federica, è un omaggio ai due grandi artisti scomparsi lui nel 1965 e lei nel 1975, alla loro arte così potentemente intrecciata al loro amore. I curatori hanno infatti scelto come titolo una frase illuminante presente in una lettera che Mafai scrive alla sua compagna nel 1942:
“Abbiamo passato 18 anni insieme e abbiamo veduto crescere le nostre figlie intelligenti e sane. Ci amiamo ancora molto. Soltanto la nostra natura artistica è stata sempre gelosa di un tesoro di cui sentivamo la responsabilità di non poter distruggere e non ha voluto l’annullamento di uno di noi come esige una certa specie di amore. Quando tu mi dici che non puoi amare di più che il tuo lavoro, io ne potrei essere geloso, ma ti capisco e allora si è formata un’altra forma di amore che è piena di armonia venata da sottili nostalgie e che ha qualche cosa di sublime”.


























