Nel tardo pomeriggio del solstizio estivo c’è stato l’ultimo appuntamento prima della pausa estiva alla mostra “Caravaggio 2025” in Palazzo Barberini. Secondo le intenzioni dei curatori e delle curatrici un’occasione importante per fare il punto sugli studi e per presentare un paio di novità. Certo è che non si può fare a meno di pensare a un omaggio in grado di attirare folle inimmaginabili altrimenti, e questo oscura un po’ gli intenti…
Sono esposte opere dalle vicende collezionistiche e dalle attribuzioni dibattute, come del resto è inevitabile dato che gli studi sul pittore continuano a sfornare novità (più o meno sensazionali) e proseguono a ritmo serrato precisando, confutando, dibattendo…
Rossella Faraglia ci ha accompagnato in questo viaggio storico-artistico attraverso la rivoluzionaria pittura dell’artista milanese, con il suo innovativo uso della luce e la disarmante e coinvolgente rappresentazione dei sentimenti umani. Un percorso che si snoda in una vicenda biografica tutto sommato piuttosto breve: dal 1595, anno dell’arrivo a Roma, al 1610, anno della sua morte. Nel mezzo ci sono gli anni turbolenti vissuti tra Napoli, Malta e la Sicilia, e di nuovo a Napoli, nella speranza di ottenere la grazia per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, uomo di carattere piuttosto turbolento (come tanti nella capitale del tempo, e come lo stesso Caravaggio) con cui ebbe un litigio in occasione di una partita di pallacorda.
Rossella ci ha raccontato di come, alla metà del ‘900, Caravaggio fosse un artista quasi dimenticato, in una oscurità per nulla rischiarata da luce come nelle sue opere. La sua rinascita artistica si deve a Roberto Longhi, critico e storico dell’arte che lo riscoprì ‘a ritroso’ studiando Mattia Preti, e che gli dedicò una memorabile mostra al Palazzo Reale di Milano nel 1951.
Abbiamo passato in rassegna tutti i e ventiquattro i capolavori in mostra e scegliere non è facile… Fattori comuni sono l’innovazione iconografica diffusa, che si affianca a una inedita tecnica “a risparmio” degli scuri, fattori che il principe dell’Accademia di San Luca, Federico Zuccari, sminuì ritenendo la sua pittura niente più che una diretta emanazione da Giorgione, niente di straordinario dunque…
In ordine cronologico, Il bacchino malato, La Buona ventura, I Bari, il Concerto. Nel Concerto, eseguito per il Cardinal del Monte, suo primo mecenate, si nota uno dei suoi tanti autoritratti in cui suona un corno, forse presagio di quella fama che sentiva di stare afferrando.
E poi La Conversione di Saulo, nella sua prima versione per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo e oggi di proprietà Odescalchi, in cui Gesù, assistito e sorretto da un angelo, invade l’ambito umano dell’accadimento, mentre Paolo, caduto dal cavallo, si copre con le mani gli occhi accecati dalla luce divina. Una scenografia mai vista prima.
Poi le stupefacenti “facce” della splendida Fillide Melandroni, Giuditta, Caterina, Maddalena in cui Caravaggio offre al tema sacro una carnalità e una veridicità da cui non c’è riparo.
Il fil rouge è infatti la rappresentazione di personaggi dalle espressioni e dalle posture vere, così come teorizzato da Leonardo un secolo prima.
Dopo i commoventi dipinti napoletani, il Martirio di Sant’Orsola chiude l’esposizione, estrema opera datata 1610. Anche qui, in un’iconografia inedita, la freccia mortale è scoccata a pochi centimetri di distanza, nessuna delle undicimila vergini è presente, Orsola guarda con stupefazione la ferita appena aperta sul suo petto. Alle sue spalle ritroviamo Caravaggio con la bocca dischiusa e l’espressione dolente, come ad esser stato trafitto dalla freccia di Attila insieme a lei. La pittura è scabra e sommaria, un vertice minimalista che ricorda l’ultimo Tiziano.
Abbiamo visto tante altre opere che meriterebbero più di una considerazione, ognuna di esse figlia della committenza e del momento storico di riferimento. Alla fine della mostra è stato opportunamente esposto un pannello con alcuni versi celebrativi, scritti pochi anni dopo la morte di Michelangelo Merisi da Caravaggio dal poeta Giovanni Battista Marino, che fu di lui profondo estimatore:
Fecer crudel congiura,
Michele, a’ danni tuoi Morte e Natura:
Questa restar temea
Da la tua mano in ogni imagin vinta,
Ch’era da te creata e non dipinta;
Quella di sdegno ardea
Perché con larga usura,
Quante la falce sua genti struggea,
Tante il pennello tuo ne rifacea.
















