Orientis partibus
adventavit asinus
pulcher et fortissimus
sarcinis aptissimus
Hey, Hey, sir asne, hey!
(Dalle regioni orientali
arriva l’asino
bello e fortissimo
adattissimo al carico
Ehi, ehi, sire asino, ehi!)
Nel Basso Medioevo, in un giorno rigorosamente imprecisato ma da collocarsi tra Natale e l’Epifania, nell’Europa del Nord, principalmente in Francia e nelle Fiandre, si svolgeva la Festa dei folli, conosciuta anche come Festa degli asini.
Il culmine della festa era l’ingresso di un asino regalmente abbigliato in chiesa, dove veniva acclamato. Si pensa che fosse ammaestrato ad inginocchiarsi a un certo punto, ma non c’è da giurarci. Quel che è certo è che si tratta di un tipico rito di rovesciamento: dal mondo arcaico fino a ben dentro l’età moderna, l’uomo ha sentito il bisogno di sovvertire l’ordine per rinnovare e dunque per rafforzare l’ordine.
L’asino è perfetto per questo rovesciamento: non c’è animale che più di lui sia in grado di rappresentare una gamma amplissima di contrari.
Ostinato e paziente, puro e vizioso, duro e tenero, lavoratore e indolente… il tutto condensato nelle due note opposte del suo raglio, una bassissima, una altissima. Gli egizi odiavano quel raglio, ricordava loro il suono della tromba, che aborrivano. E Seth, l’uccisore di Osiride, ha la testa di un asino rosso, guarda caso.
Essendo impossibile condensare in una breve nota le numerosissime immagini in cui l’asino è presente, quasi sempre tra il “personale di servizio”, tentiamo qualche spunto guidati proprio da questi tre elementi: l’ambivalenza del simbolo, l’asino rosso e il raglio. Nella Natività di Londra di Piero della Francesca il fulvo asino sta evidentemente disturbando la quiete raccolta del gruppo che ascolta il coro angelico. Ancora di più, perché oltretutto è decisamente sgraziato, disturba quello di Dürer, che sembra schiacciato dal bue.
Albrecht Dürer, Adorazione dei magi (part.), Firenze, Uffizi (1504)
Perché questo comportamento irriverente? Nelle rappresentazioni sacre, come ad esempio in Duccio e in Giotto, siamo abituati a vederlo sollecito e servizievole…
Giotto, Natività, Padova, Cappella degli Scrovegni, (1303-05)
I Padri della Chiesa, che hanno studiato ogni singola parola delle scritture indagandone il senso allegorico oltre che letterale, vedono nei due animali del presepe i simboli dei due popoli che verranno investiti dalla Rivelazione, i Giudei (l’asino) e i Gentili (il bue). Non all’unanimità, beninteso, sarebbe troppo facile: infatti talvolta è il bue a fare strane cose (per esempio mangiare la paglia della mangiatoia) e a essere identificato con i Giudei, di gran lunga più difficili da convertire. Non pure e semplici presenze animali, ma simboli il cui significato poteva essere attivato in funzione di un contesto e che magari quel contesto aiutano a ricostruire.
Neanche l’asino come cavalcatura di Cristo nell’Entrata in Gerusalemme è un asino… e basta. Prima dei Re, i sommi capi d’Israele erano i Giudici. E i Giudici cavalcavano asini. Gesù lo sapeva bene e – umile, ma pur sempre re – si presenta a Gerusalemme, tanto che il mosaicista di San Marco sembra prendere a prestito l’iconografia dell’Adventus imperiale.
Prosegue intanto la sua cattiva fama, basta un soffio perché l’asino indolente dei Bestiari, sordo all’armonia sia scelto nelle immagini come cavalcatura della Sinagoga, cieca e viziosa.
Ma l’asino “ignorante” trova un riscatto in uno dei più grandi filosofi della prima modernità, Giordano Bruno, che ne fa il protagonista di un testo contro i colleghi pedanti, gli “asini negativi”, La cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico. Di che parla il testo? Della conoscenza. Quella che non si fissa in una immutabile dottrina ma accetta come unica stabilità possibile la costanza della mutazione: è l’ “asinità positiva” quella che sa passare, come l’asino, dai cardi alle lattughe.
Per finire, tra la letteratura veramente sterminata sull’asino, vogliamo ricordare Platero y yo, di Juan Ramón Jiménez. Ne è uscita da poco una versione con splendide illustrazioni, una delle quali apre questa newsletter.
A leggerlo ora, un po’ perché la lirica di Jiménez è così raffinata, rarefatta e concreta allo stesso tempo, un po’ perché quell’Andalusia del racconto non esiste più, se ne ricava il senso di una umanità in forte rapporto con la natura, quello che abbiamo perduto e di cui tanto avremmo bisogno in questo momento. Ancora una volta un asino, Platero, funziona da perfetta e poetica sintesi.