Zeus
“Ora, perchè tu mi creda io farò cenno col capo, e questo tra gli immortali è il mio massimo gesto. Ciò che confermo col capo non può essere revocato, non è ingannevole, non resta incompiuto”. Così disse e fece un cenno con le nere sopracciglia il figlio di Crono: si scossero i capelli di ambrosia del dio sulla testa immortale, tremò il vasto Olimpo” Iliade, I, 524-529
Con queste righe che evocano un’immagine di forza impressionante, Zeus si mostra a noi per la prima volta all’interno della tradizione greca: trema l’Olimpo al suo solo muovere le sopracciglia perchè Zeus è in primo luogo forza, una forza che si manifesta con il fulmine e con la folgore per annientare i suoi nemici e gettarli nel Tartaro.
Ma non solo. In quanto “padre” degli dèi e degli uomini, Zeus deve esercitare anche una forza che sia generativa. Lo sa bene sua moglie Era quando lo cerca per l’Olimpo … sa sempre dove si trova il marito in quel momento: nel letto di qualche donna di cui si è invaghito per l’ennesima volta (il supremo reggitore del Cosmo non può di certo permettersi un’amante fissa!).
Così ci viene presentato Zeus: uno che corre dietro a tutte quelle che vede passare e, poiché onniveggente, riesce a non farsene sfuggire neppure una.
Spesso trattate dalla letteratura – neppure a dirlo tutta maschile! – come delle vere e proprie vittime, al contrario, le donne mortali non non dovevano trovarsi in situazioni completamente spiacevoli, dato per assodato che Zeus doveva essere dotato di capacità amatorie che nessun mortale avrebbe potuto eguagliare. Dettaglio decisamente non trascurabile. Per giunta, la capacità di poter assumere qualsiasi forma e di potersi manifestare in qualsiasi luogo gli consentiva di escogitare gli stratagemmi più bizzarri, divertirsi il più delle volte alle spalle dei mariti delle sue “prede”.
A tale riguardo, non è forse molto noto come l’origine della la parola “sosia” sia legata ad una delle sue più celebri avventure, splendidamente descritta in una commedia del poeta latino Plauto, l’Anfitrione.
Innamoratosi di Alcmena, regina di Tebe, Zeus decise di non trasformarsi in animale per possederla (come aveva fatto già in altre occasioni) ma ebbe un’idea più sottile e, tutto sommato, più perfida.
Alcmena, benché sposata, era ancora vergine: aveva infatti giurato che non si sarebbe concessa al marito finché questi non avesse vendicato l’uccisione dei suoi sette fratelli, massacrati in guerra. Il povero Anfitrione partì dunque per quella spedizione, sperando di ottenere dalla moglie illibata la ricompensa tanto desiderata.
Ma fu Zeus ad ottenere quel premio ben prima di lui.
Approfittando dell’assenza del marito, il re dell’Olimpo si trasformò in tutto e per tutto in un essere umano identico ad Anfitrione e, annunciando la compiuta vendetta, spinse Alcmena a consumare il loro matrimonio.
Per accrescere e prolungare il proprio godimento, inoltre, Zeus fece addirittura fermare il carro del Sole così che l’Aurora non sorgesse e quella singola notte d’amore durasse quanto tre notti terrene. Caso volle, però, che proprio in quella lunga notte il vero Anfitrione facesse ritorno a Tebe, preceduto di qualche ora dal suo servo di nome Sosia che aveva il compito di annunciare il buon esito della spedizione. Ma arrivato davanti alla porta, Sosia avrebbe trovato, a guardia dell’ingresso, il dio Ermes con le sue stesse fattezze.
Il vero Sosia pensa in un primo momento di essere impazzito anche perchè Ermes, con l’impudenza che lo contraddistingue, si getta sul povero servo prendendolo a male parole: “Come osi dire che questa è la tua casa? Come ti permetti di affermare che qui abita il tuo padrone?”
Alla fine, stordito dalle chiacchiere e dai pugni, Sosia si convince di non essere se stesso.
Ma se lo schiavo semplicemente impazzisce, al povero Anfitrione non va molto meglio: arrivato alla reggia, chiede spiegazioni alla moglie del perchè non lo accolga correndogli incontro e lei, gelandolo, risponde “Marito mio, tu devi essere uscito di senno. Sei arrivato già ieri, hai dormito con me e mi hai già raccontato tutto per filo e per segno!”.
Per un attimo il vero Anfitrione crede anche lui di essere impazzito ma subito dopo capisce tutto e, da re saggio quale è, realizza anche che non serve a molto mettersi a litigare con Zeus… dunque glissa e accoglie di buon grado anche il figlio nato da questa unione: il semidio Eracle.
Impossibile in questa sede ricordare tutte le altre avventure amorose (eterosessuali tanto quanto omosessuali) del primo tra gli dèi, padre di alcuni dei protagonisti più importanti del mito: dall’unione con Europa nacque Minosse, da quella con Danae nacque Perseo, da quella con Leda i gemelli Castore e Polluce e la bellissima Elena di Troia.
In tutte queste storie c’è una costante: soddisfatto il suo piacere, Zeus scompare, per riprendere il suo posto in trono accanto alla legittima moglie, la quale però non sempre è disposta a perdonare le scappatelle del divino consorte, finendo spesso per prendersela proprio con il frutto di queste unioni fedifraghe. Famosa è ad esempio l’avversione che Era provò specificatamente nei confronti di Eracle.
Solo in un caso, Zeus reagì adirato alle continue ritorsioni della moglie, appendendola dall’alto dell’Olimpo con una catena d’oro e due incudini legate ai piedi.
Nel quindicesimo libro dell’Iliade Omero ce la mostra così, pendente dalle nubi e umiliata di fronte agli altri dèi che, per quanto sdegnati, non osano intervenire per non rischiare di una sorte simile.
Se dunque insomma, in una famiglia normale volerebbero piatti, in una famiglia divina anche i litigi assumono proporzioni cosmiche, tanto più che i problemi di Zeus non si limitavano a quelli derivanti dalle sue infedeltà coniugali ma anche a quelli che lo impegnavano, in quanto capofamiglia, ad “educare e gestire” un massa di figli e parenti per quanto divini, infantili e litigiosi.
Per garantire l’ordine cosmico, in questa baraonda faticosa persino per lui, Zeus sceglie di farsi aiutare da due buoni consiglieri: Dike (“Giustizia”) e Aidòs (“Vergogna”), che sono sempre al suo fianco e che, in virtù della loro costante presenza, gli garantiscono gli epiteti di Ikesios (protettore dei supplici), Horkios (custode dei giuramenti) e Xenios (protettore degli ospiti).
Di tutte le sue sfaccettature, solo quest’ultima sarà quella scelta dai “noiosi” Romani per il loro Giove: un dio severo, garante dell’ordine e vendicatore, capace, per i torti di uno, di punire un intero popolo.