Appuntamento in piazza dell’Esquilino per la visita a Santa Maria Maggiore, sotto la colonna dedicata alla Vergine, fatta portare qui da Paolo V dalla Basilica di Costantino e Massenzio. Rossella Faraglia che ci guidava ricordava che una parte del colle era già abitata in epoca repubblicana sebbene l’etimologia (ex-cŏlere) ne indichi l’essere esterna alle mura (serviane). Diverse memorie archeologiche: in particolare un tempio dedicato alla dea Mefitis indica che proprio fuori della vicina Porta esquilina erano presenti delle fosse comuni per la sepoltura a cielo aperto dei poveri, degli schiavi, e utilizzate anche come discarica. La bonifica avverrà solo in età cesariano-augustea e permise la successiva edificazione di ricche domus patrizie.
La basilica, oltre per il ‘miracolo della nevicata’ dell’agosto del 358, che avrebbe ispirato a papa Liberio la sua fondazione, viene ricordata nei manuali per aver conservato l’originale struttura paleocristiana. In realtà ciò è vero se correlato agli interventi architettonici del ‘700 di Ferdinando Fuga. A lui infatti, oltre che il rifacimento della facciata, si deve il restauro della basilica con l’armonizzazione della dimensione delle colonne, il rifacimento dei capitelli e la sistemazione dei pavimenti cosmateschi. Ma la chiesa è di certo più nota per i meravigliosi mosaici del V secolo, allorché papa Sisto III, “episcopus plebis dei”, come autorevolmente sottolineato dal clipeo al centro dell’arco del presbiterio, fa ornare la chiesa con un ciclo che rimanda alle premesse della venuta di Cristo nella navata, e all’infanzia di Cristo nell’arco trionfale, quando il regale bambino è all’ombra protettiva di sua madre, la Vergine, che il Concilio di Efeso proprio l’anno prima dei mosaici (431) aveva proclamato Theotokos, Madre di Dio. Diversi per fattura ed ispirazione nonostante la comune cronologia, quelli della navata debitori della coeva decorazione dei manoscritti, quelli dell’arco con evidenti influssi orientali e proto-bizantini.
Il mosaico realizzato nell’abside da Jacopo Torriti alla fine del ‘200 su incarico di papa Niccolò IV è per diversi motivi forse il più bel mosaico medievale di Roma, quasi una summa allo stesso tempo antichizzante e aggiornata di tutto ciò che si era visto nei pur splendidi catini absidali precedenti. A ribadire l’antico dogma, la Vergine è una regina incoronata dal figlio, come lui splendidamente vestita d’oro.
Rossella ci ha anche raccontato le vicende legate all’edificazione della loggia delle benedizioni, che in parte oscura in parte salva i mosaici di Filippo Rusuti di fine ‘200 in facciata esterna che raccontano la leggenda dell’edificazione della basilica. E – di nuovo in chiesa – quelle legate alle cappelle Sistina e Paolina, caratterizzate da rimandi artistici alle coeve dispute sull’ortodossia religiosa e alle conseguenti, inevitabili, guerre.
Nei pressi dell’uscita, in controfacciata, l’ormai erratico – ma sempre meraviglioso – presepe di Arnolfo di Cambio, eseguito alla fine del ‘200 per fornire degna scenografia alle supposte reliquie della mangiatoia della Natività. Sebbene ne rimangano solo alcuni elementi, è tuttavia possibile ammirare l’eleganza di questo sommo scultore toscano nel contestualizzare e collegare tra loro le posture dei personaggi in scena e l’inedita capacità di modellare i corpi nello spazio secondo i loro movimenti.