“Ero andato a vedere quel quadro [la “Madonna della seggiola] per divertirmi; ed ecco che mi trovo davanti alla pittura più libera, più salda, più meravigliosamente semplice e viva che sia dato di immaginare.”
(Pierre-Auguste Renoir, Corrispondenza, 1881-82)
Il tempo sospeso che stiamo attraversando induce riflessioni e ha prodotto importanti e vistosi ripensamenti in diversi campi: i direttori di musei, specie quelli in cui a più riprese, nel corso di questi ultimi anni, ci siamo trovati a spintonarci, o da cui siamo stati cacciati col forcone a fine turno (anche qualche minuto prima in verità), sembrano aver assorbito lo spirito dei tempi che impone un consumo meno forsennato, più diluito, più oculato e paiono aver cambiato prospettiva rispetto al bene che gestiscono (Uffizi, Galleria Borghese di Roma, solo per citare i casi più vistosi), sebbene questo comporterà ricavi inferiori.
Uno dei due curatori della mostra “Raffaello 1520-1483”, ragionando sulla crescita esponenziale del turismo “artistico” e sul suo sopraggiunto limite strutturale ha dichiarato:
“ … troppo aggredite le città d’arte, troppo affollati i grandi musei rispetto all’agonia dei piccoli centri, dei musei «minori» e del patrimonio diffuso. Ma la complessità globale del fenomeno ha dato spesso la sensazione di un sistema impossibile da fermare. Tra i tanti elementi di straordinarietà negativa della presente congiuntura ritengo sia positiva la possibilità di ragionare, per una volta a meccanismo fermo, sulla salute del sistema e sulla sua tenuta nel lungo termine. Vedo insomma un’occasione irripetibile per liberare energie finora inibite dall’inarrestabilità di un ingranaggio che lasciava poco spazio a nuove idee per una svolta.”
Sperando nella svolta, consoliamoci con Raffaello, che di tutela se ne intendeva …
Come di sicuro avrete letto, perché per fortuna circola molto materiale audio-visivo intorno a questa mostra eccezionale, la scelta espositiva è stata … iniziare dalla fine, da quel fatale 6 aprile 1520 quando l’astro di Raffaello si spense e l’universo dovette fare a meno di lui.
Le prime sezioni della mostra riguardano proprio la creazione del mito di Raffaello a partire dalla morte di venerdì santo, proseguendo con le esequie al Pantheon tra lo strazio generale.
Subito dopo si apre una tra le sezioni più interessanti della mostra: quella relativa alla “Lettera a Leone X”, un documento databile al 1519, dunque precedente di un anno la morte del maestro. Essa è, nella prima versione conosciuta, concepita da Raffaello e scritta da Baldassarre Castiglione, intellettuale e diplomatico, sodale dell’artista, che ne fece il ritratto straordinario che vi mostriamo, conservato al Louvre e presente in mostra.
Cosa dice la lettera? Sostanzialmente, dopo aver lamentato lo stato dei monumenti antichi, sollecita il papa ad “aver cura di quel poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana”. Si parla dunque della tutela dei monumenti della città di Roma e si prega Leone X di non tenere questa tutela “tra gli ultimi pensieri”. E come pensa di fare ciò Raffaello? Facendo una Pianta di Roma e descrivendo storicamente e architettonicamente gli edifici esemplari della città eterna. Dunque egli si propone come un tecnico (il metodo del rilievo e del disegno architettonico è spiegato in dettaglio) che, sentendo la necessità della salvaguardia, mette a disposizione il suo sapere storico-scientifico per aiutare a conoscere e preservare i monumenti (preservandone al contempo la memoria). La lettera dunque doveva essere corredata da disegni architettonici e da una Pianta di Roma antica.
Il magnifico progetto era squisitamente umanistico, e si poneva nel solco che già tanti architetti-umanisti avevano tracciato, sulla scorta degli scrittori antichi, Vitruvio in primo luogo. E non è dunque un caso se il 7 aprile 1520 Marcantonio Michiel, umanista letterato e collezionista veneziano che alla morte di Raffaello si trovava a Roma, scrisse nel suo prezioso diario: “dolse la sua morte precipue alli letterati per non haver potuto fornire la descrittione, et pittura di Roma antica ch’el faceva, che era cosa bellissima”.
È vero, la morte interruppe il progetto e la lettera cadde nell’oblio. Ma accaddero poi fatti singolari. La lettera riemerse nel 1733, ma tra le opere di Baldassarre Castiglione e fu pressoché ignorata. Solo nel 1799, a Firenze, durante l’occupazione napoleonica, venne dimostrato che l’autore era Raffaello. Da quel momento si assiste a una considerazione via via crescente per i principi in essa contenuti.
Nel 1802 Canova viene associato al “gran Raffaello d’Urbino” quando Pio VII gli conferisce il titolo di “Ispettore Generale delle Belle Arti, e Antichità di Roma e in tutto lo Stato Pontificio”, titolo parallelo a quello di “prefetto” dato a Raffaello da Leone X.
Nel documento di conferimento dell’incarico si menzionava la necessità della tutela delle opere d’arte “sia per impedire che alle perdite sofferte nuove se ne aggiungano, sia per riparare con il discuoprimento di nuovi Monumenti alla mancanza di quelli, che sonosi perduti”.
Ai principi di questo documento di papa Chiaramonti si ispirarono i legislatori dei più importanti stati europei, quelli del Regno d’Italia e, infine, della Repubblica Italiana, ed essi si attualizzarono e presero corpo nel mirabile articolo 9 della nostra Carta Costituzionale:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
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