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Gli dèi dell’Olimpo X / Ade

Ade è il Signore degli inferi, che nel suo regno sotterraneo tiene prigioniere le anime dei defunti. Più che di anime, è più corretto parlare di ombre evanescenti. Di ciò che si era in vita rimane solo un simulacro, una silhouette evanescente: è quello che gli antichi chiamano “psyche”, una parola che in greco significa molto meno di anima. Il termine, letteralmente, significa “soffio”, l’ultimo respiro che esce dalla labbra dei morti, l’ultimo alito che fugge da noi. La psyche è un doppio postumo e misterioso dell’essere vivente: un’immagine riflessa nello specchio, enigmatica e irreale.

È così che Odisseo ci descrive le ombre durante il suo viaggio nell’Oltretomba quando, seguendo le parole di Circe, si incammina per un altro viaggio terribile e misterioso che gli consentirà, attraverso le parole dell’indovino Tiresia, ospite dell’Ade ma ancora in grado di profetizzare, di rientrare nella sua amata Itaca.

L’ingresso all’Aldilà che ci viene descritto è segnato da un boschetto di alti pioppi e di salici e, anche se l’Odissea non colloca in nessun punto specifico le porte dell’Ade, le antiche leggende le situano in diversi luoghi, dal promontorio del Tenaro, nell’estremo sud del Peloponneso, al più vicino lago Averno, presso Napoli. Ciò che sappiamo è che l’accesso agli Inferi era segnato da due fiumi: il Piriflegetonte (il fiume del fuoco) e il Cocito (il fiume del lamento), che confluivano nel cupo e maestoso Acheronte (il fiume del dolore).

Proprio su quest’ultimo si stagliava la barca del vecchio Caronte, il traghettatore dei defunti, che chiedeva una moneta per ogni passaggio, moneta che veniva infatti ritualmente collocata sulle labbra serrate dei defunti.

Arnold Böcklin, L’Isola dei morti, 1861, Berlino, Staatliche Museen

Oltre la riva oscura dell’Acheronte, nel regno dell’Ade si apre un paesaggio spettrale, un territorio grigio e brumoso dove non domina però, come noi crederemmo, il silenzio ma un innaturale frastuono: nell’Aldilà, dice Omero, i morti stridono come uccelli, sono come pipistrelli ciechi, prigionieri di un volo perenne e senza senso.

Alla legione infinita di queste ombre infernali apparteneva anche Lamia, la ninfa vampira che succhiava la vita degli uomini: con il suo nome le balie antiche minacciavano i bambini che non volevano dormire. Lamia era stata un tempo una bellissima ragazza ma anche lei, come molte altre, fu vittima della gelosia di Era, che le uccideva tutti i figli man mano che nascevano. Il dolore l’aveva dunque trasformata in un mostro e, da allora, si aggirava di notte per le case degli uomini portandosi via dalle culle tutti i bambini che le ricordavano i figli perduti. Zeus le aveva donato il potere di assumere qualsiasi forma ma una maledizione continuava a gravare su di lei: non poteva mai dormire, le era impossibile chiudere gli occhi. L’unica maniera per liberarsi da questa magia era quella di potersi cavare gli occhi e rimetterseli a suo piacimento.

Nell’arte di fine ’800 è spesso un’affascinante femme fatale, il cui potere distruttivo è avvolto in un fascino straordinario.

Sir George Frampton, Lamia, 1899-1900, Londra, Royal Academy of Arts

Sono molti i volti della morte, molti i demoni infernali di cui gli antichi narravano le storie. Basti pensare alle tre Signore del Destino, le Moire (le latine Parche) che filavano la sorte degli uomini. La filavano in senso letterale: Cloto, la tessitrice, stava al telaio da cui uscivano i fili in cui si dipanava la vita di ogni essere umano; Lachesi, la distributrice (ovvero colei che assegna a ciascuno il suo destino), ne stabiliva la lunghezza; Atropo, colei a cui non si sfugge, recideva il filo quando il momento era giunto.

Jacopo Bazzi (il Sodoma), Marco Bigio, Le Parche, anni ’40 del XVI secolo, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica, Palazzo Barberini

Nessuno aveva più potere di loro, che erano il destino in persona: persino Zeus doveva sottostare al loro volere.
C’erano poi le Graie, le Arpie, le Chere, le Erinni, Empeusa…

Insomma, lo avrete notato, i demoni della morte sono tutti femmine. Anche se in greco la morte è maschile, non femminile come nella nostra lingua.

E il re di questa orribile corte e di questo regno spettrale è Ade, il fratello oscuro e ombroso di Zeus e di Poseidone. Cosa significhi il suo nome è un mistero, forse vuol dire “l’invisibile”… d’altronde è colui che accompagna invisibilmente gli uomini ad ogni passo, e sappiamo che tra i poteri di Ade rientrava proprio l’invisibilità, che gli veniva donata da un elmo magico.

Testa di Ade, Età ellenistica, Aidone, Museo Archeologico

Senza dubbio, la storia più famosa che vede Ade protagonista è il ratto di Persefone (la latina Proserpina).

La giovane Persefone era la figlia di Demetra e, mentre un giorno si trovava su un prato a raccogliere fiori, scomparve dalla luce del sole. Fu un fiore in particolare a trascinarla nel suo incantesimo: il narciso, il fiore che già nel suo nome porta impresso il potere ipnotico che possiede. Narkyssos è in greco il fiore del narke, del sonno, della catalessi (pensate alla parola italiana “narcotico” che deriva dalla stessa radice). Centinaia di narcisi spuntarono miracolosamente dal suolo e circondarono Persefone, il loro profumo saliva fino al cielo. Fu allora che il dio dei morti apparve.

Luca Giordano, Ratto di Proserpina, 1682-85, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi

O nella fustigatrice dei VE dove si trovava quel prato? C’è un luogo che da sempre i greci legavano al rapimento di Persefone: la Sicilia e, più precisamente, non lontano dalla città di Enna, proprio sulle sponde del lago di Pergusa.
Un rombo, simile ad un tuono, salì dalle viscere della terra: era il carro del Dio dei morti che cercava la strada per raggiungere la superficie. Al fragore seguì un terremoto (di quelli che la Sicilia ha ben conosciuto durante la sua storia) che, stando alla leggenda, fu il motivo per cui la Sicilia si separò dalla terraferma e per cui, dunque, si creò lo stretto di Messina. 

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22, Roma, Galleria Borghese

Il pensiero del rapimento di Persefone era nato dalla grande solitudine di Ade, da sempre trattato dagli altri dèi celesti dell’Olimpo come una divinità di terza classe, da quelli che, a ben vedere, erano decisamente assai meno potenti di lui.

Fu proprio per questo solitudine che Zeus, per quanto lo detestasse, concesse ad Ade di prendersi in moglie la bellissima figlia unica di Demetra, che urlava terrorizzata tra le sue braccia, mentre il carro infernale tornava ad immergersi nella profondità della terra.

Nonostante i tentativi disperati della madre, Persefone rimarrà per l’eternità a regnare sui morti accanto ad Ade, almeno per una parte dell’anno, a perenne ammonimento della ciclicità della vita.

Pinax con Persefone e Ade, V sec. a.C, Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale

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